Archeologia dell’ebrezza


Archeologia dell’ebrezza

Giorgio Samorini

Schermata 2018-03-26 alle 12.14.25L’incontro dell’uomo con l’azione inebriante delle sostanze naturali, come tutti i processi evolutivi, è probabilmente avvenuto per caso: ma da qui è scaturita la ricerca di nuove specie, che in tutte le popolazioni è all’origine di riti complessi e che ha portato alla nascita di diverse figure di conoscitori tradizionali delle piante e della loro attività. Ripercorriamo qui l’approccio archeologico allo studio delle origini di queste conoscenze, presentando una tavola riassuntiva delle evidenze più arcaiche che attestano l’uso di piante inebrianti nel mondo, allo stato attuale dei ritrovamenti.

La storia della relazione umana con le piante inebrianti si perde nella notte dei tempi. Questo tipo particolare di vegetali è ubiquitario nella flora di tutti i continenti, e il loro numero supera notevolmente quello dei vegetali inebrianti generalmente noti al “grande pubblico”, quali sono il Tè, il Caffè, l’Oppio, la Canapa, il Tabacco e le bevande alcoliche ricavate dall’uva e dai cereali. Gli specialisti del settore, gli etnobotanici, ne contano almeno 1200 specie, e ogni anno ne vengono scoperte delle nuove. Diverse centinaia sono attualmente impiegate dalle popolazioni tradizionali, mentre per molte altre non possiamo essere certi se si tratti di una scoperta dell’uomo moderno, o di una riscoperta di piante note e impiegate da chissà quale etnia del passato. Ciò che è certo è la grande antichità dell’impiego e della ricerca umana di fonti psicoattive con lo scopo di ottenere un’ebbrezza, un’“alterità”, una “visione”, più propriamente una modificazione dello stato di coscienza. […]

Per continuare a leggere l’articolo abbonati alla rivista o acquista il singolo numero